Elemento positivo: questo breve volume di narrativa nostrana denota uno stile brioso, leggero, scorrevole, impreziosito da citazioni e rimandi alla grande letteratura del nostro paese, incastonate nella trama e motivate dall'attività occasionale della protagonista, commessa in una libreria e appassionata lettrice.
Elemento negativo, tutto il resto.
La bilancia del giudizio finale pende purtroppo in netto sfavore per questo romanzo, la cui lettura, col senno di poi evitabile, si giustifica proprio solo in ragione della felicità dello stile e del poco tempo che ci sottrae.
Tralascio valutazioni troppo soggettive, come il fatto di trovare personalmente scostante, antipatica, fasulla (anche con sé stessa) e tremendamente egocentrica la narratrice Matilde Ferraris, quel tipo di persona che considera il proprio sacrosanto punto di vista come se fosse l’unico parametro disponibile per valutare il comportamento e i gusti altrui (una sorta di precipitato femminile delle caratteristiche peggiori dei protagonisti dei romanzi di Andrea De Carlo).
Se la scrittrice non si rispecchia nella protagonista, avrebbe fatto meglio ad evitare l'io narrante: così vien da pensare che la sig.ra Pattavina abbia voluto dar vita ad una proiezione della sua personalità.
Quello che reputo oggettivamente discutibile è semmai la scelta di supportare a tutti i costi il racconto di vicende di vita ordinaria e di microscopici drammi quotidiani (nel caso, peraltro nemmeno troppo interessanti), sparse sui primi due terzi del libro, con l'inserimento (che tradisce un tributo alla moda letteraria imperante) di un risalente mistero irrisolto e della conseguente immancabile indagine improvvisata, il cui successo finale appare forzato ed improbabile, dipendente com’è da meri colpi di fortuna e da sviluppi del tutto casuali.
Il risultato è che la storia principale, poco interessante e governato soprattutto dalle paturnie e dalle idiosincrasie un tantino isteriche ed irrazionali della protagonista, rimane fondamentalmente tale, cioè poco interessante, e al tempo stesso si rivela ugualmente poco stimolante anche il raccontino subordinato, ovvero la trama blandamente "gialla" (giallognola, vien da dire, per tanto che è esangue e statica) in cui inciampa la Libraia, investigatrice suo malgrado, con l'amico Michele, giornalista free lance. Vicenda nella vicenda nella quale, per ragioni talmente trasparenti e deboli da tradire a distanza l’astuto espediente, viene riesumato un antico delitto rimasto irrisolto, ma l'indagine viene sviluppata con poca convinzione sia dai protagonisti, sia dalla stessa scrittrice. Le spiegazioni finali risultano tanto "classiche", posto che ripropongono uno sviluppo appartenente alla grande tradizione del romanzo giallo (ne sanno qualcosa gli appassionati di Agatha Christie), ma anche del tutto prevedibili, con buona pace della drammaticità che avrebbero potuto conferire alle pagine finali del libro.
I personaggi, che dovrebbero apparire quantomeno verosimili, sono descritti in modo forzato, troppo grottesco e macchiettistico, e l'eccesso di ironia sferzante fa deragliare il racconto in un'inutile deriva farsesca, con perdita di attendibilità dell’intero canovaccio.
Insomma, ho avuto l'impressione di leggere una versione ancora più scialba dei già desolanti gialletti di Mario Vichi con il commissario Bordelli. L'autrice cerca invano di nobilitare l'ambiente geografico, Orvieto, una cittadina che nonostante gli oltre 20.000 abitanti della realtà, nel libro appare piccina come fosse un paesino di 200 anime, e nemmeno troppo apprezzata: scatta inevitabile un confronto con i gialli psicologici di Perissinotto, soprattutto quelli con protagonista la dottoressa Pavesi, emigrata a Bergamo, dove la città ospite viene amata e descritta con ben più appassionato affetto dal romanziere e viene voglia al lettore di precipitarsi a visitarla.
L'unico vero mistero da risolvere, alla fine, è capire cosa siano e a cosa servano le frasette citate tra un capitolo dall'altro, che contribuiscono solo ad aumentare a tradimento il numero di pagine del volume. Sono a tratti incomprensibili, e comunque non hanno la minima attinenza con gli sviluppi narrativi del capitolo che introducono. Per un po' ho pensato fossero anticipazioni dei poemetti di "Madame Georgette", uno dei tanti assurdi personaggi che popolano il romanzo, le cui liriche vengono bollate come "bruttissime". Da qualche parte ho letto che dovrebbe trattarsi di estratti dal Libro di Giobbe. Va bene, non ho verificato, mi importa poco, dal momento che non si capisce come e perchè siano finite lì, tra un capitolo e l'altro, con buona pace per la foresta amazzonica.
Mi spiace essere così drastico e severo nel giudicare l'opera della sig.ra Pattavina.
Elemento negativo, tutto il resto.
La bilancia del giudizio finale pende purtroppo in netto sfavore per questo romanzo, la cui lettura, col senno di poi evitabile, si giustifica proprio solo in ragione della felicità dello stile e del poco tempo che ci sottrae.
Tralascio valutazioni troppo soggettive, come il fatto di trovare personalmente scostante, antipatica, fasulla (anche con sé stessa) e tremendamente egocentrica la narratrice Matilde Ferraris, quel tipo di persona che considera il proprio sacrosanto punto di vista come se fosse l’unico parametro disponibile per valutare il comportamento e i gusti altrui (una sorta di precipitato femminile delle caratteristiche peggiori dei protagonisti dei romanzi di Andrea De Carlo).
Se la scrittrice non si rispecchia nella protagonista, avrebbe fatto meglio ad evitare l'io narrante: così vien da pensare che la sig.ra Pattavina abbia voluto dar vita ad una proiezione della sua personalità.
Quello che reputo oggettivamente discutibile è semmai la scelta di supportare a tutti i costi il racconto di vicende di vita ordinaria e di microscopici drammi quotidiani (nel caso, peraltro nemmeno troppo interessanti), sparse sui primi due terzi del libro, con l'inserimento (che tradisce un tributo alla moda letteraria imperante) di un risalente mistero irrisolto e della conseguente immancabile indagine improvvisata, il cui successo finale appare forzato ed improbabile, dipendente com’è da meri colpi di fortuna e da sviluppi del tutto casuali.
Il risultato è che la storia principale, poco interessante e governato soprattutto dalle paturnie e dalle idiosincrasie un tantino isteriche ed irrazionali della protagonista, rimane fondamentalmente tale, cioè poco interessante, e al tempo stesso si rivela ugualmente poco stimolante anche il raccontino subordinato, ovvero la trama blandamente "gialla" (giallognola, vien da dire, per tanto che è esangue e statica) in cui inciampa la Libraia, investigatrice suo malgrado, con l'amico Michele, giornalista free lance. Vicenda nella vicenda nella quale, per ragioni talmente trasparenti e deboli da tradire a distanza l’astuto espediente, viene riesumato un antico delitto rimasto irrisolto, ma l'indagine viene sviluppata con poca convinzione sia dai protagonisti, sia dalla stessa scrittrice. Le spiegazioni finali risultano tanto "classiche", posto che ripropongono uno sviluppo appartenente alla grande tradizione del romanzo giallo (ne sanno qualcosa gli appassionati di Agatha Christie), ma anche del tutto prevedibili, con buona pace della drammaticità che avrebbero potuto conferire alle pagine finali del libro.
I personaggi, che dovrebbero apparire quantomeno verosimili, sono descritti in modo forzato, troppo grottesco e macchiettistico, e l'eccesso di ironia sferzante fa deragliare il racconto in un'inutile deriva farsesca, con perdita di attendibilità dell’intero canovaccio.
Insomma, ho avuto l'impressione di leggere una versione ancora più scialba dei già desolanti gialletti di Mario Vichi con il commissario Bordelli. L'autrice cerca invano di nobilitare l'ambiente geografico, Orvieto, una cittadina che nonostante gli oltre 20.000 abitanti della realtà, nel libro appare piccina come fosse un paesino di 200 anime, e nemmeno troppo apprezzata: scatta inevitabile un confronto con i gialli psicologici di Perissinotto, soprattutto quelli con protagonista la dottoressa Pavesi, emigrata a Bergamo, dove la città ospite viene amata e descritta con ben più appassionato affetto dal romanziere e viene voglia al lettore di precipitarsi a visitarla.
L'unico vero mistero da risolvere, alla fine, è capire cosa siano e a cosa servano le frasette citate tra un capitolo dall'altro, che contribuiscono solo ad aumentare a tradimento il numero di pagine del volume. Sono a tratti incomprensibili, e comunque non hanno la minima attinenza con gli sviluppi narrativi del capitolo che introducono. Per un po' ho pensato fossero anticipazioni dei poemetti di "Madame Georgette", uno dei tanti assurdi personaggi che popolano il romanzo, le cui liriche vengono bollate come "bruttissime". Da qualche parte ho letto che dovrebbe trattarsi di estratti dal Libro di Giobbe. Va bene, non ho verificato, mi importa poco, dal momento che non si capisce come e perchè siano finite lì, tra un capitolo e l'altro, con buona pace per la foresta amazzonica.
Mi spiace essere così drastico e severo nel giudicare l'opera della sig.ra Pattavina.
Oggi in Italia devono essere davvero migliaia gli aspiranti scrittori che hanno un'opera di narrativa nel proprio cassetto, che non vede l'ora di essere pubblicata. Duole constatare come gli editor di una etichetta rispettabile come la Fanucci non abbiano saputo offrire la medesima occasione di ribalta a qualche prova d'esordio ben più valida di questa, un romanzetto che avrebbe avuto diritto di pubblicazione, a mio avviso, solo se fosse stata l'opera transitoria e perdonabile di qualche validissimo grande romanziere in pausa di riflessione, non certo un esordio letterario. Ma tant'è.