mercoledì 18 maggio 2011

SOSTIENE PEREIRA | romanzo di Antonio Tabucchi (1994)








Su questo magnifico romanzo del 1994, divenuto a buon diritto un classico della nostra letteratura contemporanea, si sono versati fiumi di inchiostro, e quindi c'è poco da dire che non sia già stato detto.



Mi va di parlarne solo perchè provo un immenso piacere quando leggo un libro così suggestivo, impegnato, stimolante, raffinato ed emozionante come questo, e lo trovo al tempo stesso leggero e rinfrescante come bere un bicchier d'acqua. Con la sua prosa scorrevole, Tabucchi ci dimostra come la densità delle idee e dei pensieri non debba necessariamente tradursi in pesantezza concettuale. Insomma, un caso in cui la grande letteratura si legge con la stessa fluidità con cui si affrontano i romanzi d'evasione.



SOSTIENE PEREIRA è un libro che offre molti stimoli, come si conviene alla letteratura autentica. Tra i tanti spunti di riflessione, ovviamente quello che affascina maggiormente è l'invito all'impegno civile, che non si traduce mai in furore estremista o in rabbiosa sobillazione. Tabucchi offre invece una pacata invettiva, e lo fa plasmando un personaggio di straordinaria vitalità, questo pigro vedovo di mezz'età che neutralizza con la lettura e con il suo lavoro di recensore culturale per un giornale minore della Lisbona del 1938, in piena dittatura quindi, il dolore per il vuoto esistenziale in cui si è lasciato sprofondare dopo la morte dell'amata moglie. Pereira è un uomo di salde convinzioni religiose, appena consapevole dell'accidia che sta progressivamente incrostando le sue giornate. Nutre un grande rammarico per non aver potuto coronare gli anni di vita matrimoniale con la nascita di un figlio, e così si affeziona come un padre al giovane sprovveduto intellettuale in cui si imbatte quasi per caso, mentre attraversa una fase della sua esistenza sempre più votata al pensiero della morte e dell'abbandono. Il ragazzo Monteiro Rossi, che Pereira prende sotto la sua ala protettiva, e in seguito anche la sua affascinante ma enigmatica fidanzata Marta, stimolano nell'anziano un nuovo interesse per la vita, e soprattutto risvegliano il suo senso civico, la consapevolezza di avere un forte dovere di opporsi, con l'energia controllata e pacata propria dell'intellettuale, alle malefatte del regime dittatoriale di Salazar.



Uno spunto intenso, affascinante, che cattura l'attenzione del lettore fin dalle prime pagine e conduce a divorare in qualche giorno il romanzo. Una lettura quanto mai attuale, che ricorda a tutti i cittadini vigili e consapevoli l'obbligo morale di impegnarsi nel proprio quotidiano con rispetto, intelligenza, spirito critico e forte serietà dei costumi. Semplicemente grande.

martedì 17 maggio 2011

UN BRIVIDO SULLA SCHIENA DEL DRAGO | romanzo di Danilo Arona


Va detto subito che Danilo Arona scrive molto bene. Davvero molto bene.
A differenza di molti autori italiani sedotti, come lui, dalla narrativa horror, Arona non utilizza un "gergo" da narratore horror, evita in modo lodevole di scimiottare lo stile dei grandi d'oltreoceano. Critico letterario e cinematografico, questo scrittore alessandrino ancora ingiustamente poco conosciuto, nonostante il suo ormai monumentale contributo alla narrativa e alla fiction di genere pulp del nostro paese, utilizza per la sua narrativa uno stile molto personale, che non sceglie mai di raccontare in modo lineare lo sviluppo degli eventi, e che entra ed esce dall'introspezione soggettiva con una disinvoltura che lascia spiazzati. Leggere i suoi libri non è mai rilassante e facile, e non solo per i temi trattati. Arona, da scrittore intelligente, ama confrontarsi con l'intelligenza dei suoi lettori, mettendola alla prova, divertendosi spesso a sovvertire le atmosfere, i panorami, i contesti in cui costruisce le sue trame.

Detto questo, occorre anche notare come questo autore abbia compiuto delle scelte "poetiche" consapevolmente estremiste, che lo espongono ad una di certo consapevole possibilità di risultare irritante. Intanto Arona si cura poco della verosimiglianza delle sue storie. Interessato com'è a stressare gli eventi è disposto a sacrificare la sospensione dell'incredulità del lettore, pur di tirare colpi bassi, e mostrare alla luce del sole tutte le interiora e le marcescenze che gli riesce di disseppellire. Altra cosa, a parer mio meno perdonabile, è di contaminare troppo la sua vena creativa con una misantropia verosimilmente radicata nel suo carattere: si capisce lontano mille miglia che Arona è un "selvatico", un orso, uno di quelli che ama poco i prossimi suoi, e che magari se lo si avvicina al bar per scambiare due parole ti ripaga con un paio di grugniti per rinsaldare le distanze. D'accordo, non lo conosco, sto solo speculando, ma si intuisce tutto questo dalla scarsa affezione di questo scrittore per tutti (senza eccezioni) i suoi personaggi, che tratta con distacco. Li sa raccontare bene, li rende credibili, ma giusto quanto basta per farli finire in maniere tragiche: l'autore non ama i suoi personaggi, e li tratta di conseguenza. Non si commuove per la loro sorte, non li lascia respirare il tempo necessario per permettere al lettore di trepidare per il loro destino.

E così veniamo a questo piccolo romanzo di horror estremo che è UN BRIVIDO SULLA SCHIENA DEL DRAGO. Storia scombiccherata e sgangherata oltremodo, nata probabilmente come pretesto per mettere insieme delle piccole novelle, o meglio, dei flash narrativi, appiccicati l'un l'altro con uno strampalato ordine logico/cronologico. Tutto questo si vede e si coglie, per cui dopo un po' non ci si sforza più di mettere insieme tutti gli anelli di una trama intrigante, certo, ma troppo smagliata per essere pienamente apprezzata.

Detto questo, i singoli flash narrativi, gli episodi grandi e piccoli che si susseguono in modo inatteso e spasmodico, spaziando dall'horror più atmosferico allo splatter più brutale, sono tutti, a modo loro, intriganti, e lasciano il segno molto più che non lo "sguardo d'insieme".

Una lettura diversa dal solito, certamente non leggera e non svagante, resa anche un tantino difficile dall'edizione, che consegna il romanzo ad un volumetto formato breviario, con caratteri piccoli, eccellenti per testare lo stato della propria presbiopia.

martedì 10 maggio 2011

INCUBI, antologia horror di Lapo Ferrarese


Un nuovo viaggio ai confini della realtà.

Lapo Ferrarese propone la sua seconda antologia di racconti, intitolata INCUBI.

A differenza della precedente raccolta OMBRE (edizioni Phasar), che era auto-prodotta, questa seconda antologia è edita da Galaad e normalmente commercializzata (io l'ho chiesta direttamente alla casa editrice). Poco importa se l’autore non è molto noto, pubblicizzato e pluridecorato: il piacere del brivido dimora anche nelle opere piccole piccole, che si tengono nell’oscurità.

Nel primo racconto un avventato poliziotto si getta all’inseguimento di tre rapinatori, nel cuore della notte. Dopo aver provocato una serie di brutti incidenti, l’auto dei malviventi finisce in una sperduta stradina di campagna, dove il poliziotto riesce finalmente ad acciuffarli e ad arrestarli, salvo scoprire di aver perso ogni contatto con la centrale di polizia e di essere anche lui completamente perso e isolato. Poco dopo, dal buio salta fuori un inquietante anziano, arrivato da chissà dove, il quale informa il poliziotto che i tre, fuggendo, hanno causato diverse vittime ignare, e pertanto gli ordina di dare esecuzione alla loro sentenza di morte. Il poliziotto ovviamente rifiuta di giustiziare sommariamente i tre delinquenti, ma in questo modo scatena l’inarrestabile aggressione da parte di creature animalesche e mostruose.

Nella seconda novella, senz’altro la più suggestiva della raccolta, un ragazzo di diciassette anni, rimasto solo nel grande appartamento dei genitori che sono in vacanza, viene svegliato nel cuore della notte da un sogno inquietante, in cui si è visto assalire da una gelida creatura mostruosa emersa dal buio. Poco dopo viene attirato da una corrente d’aria che lo conduce suo malgrado ad esplorare il solaio di casa, dove scopre l’esistenza di una grata da cui si può sbirciare l’androne della casa confinante. Da questo scorcio il ragazzo assiste sbalordito ad una scena terribile e surreale, che dà inizio ad una vera e propria lotta contro il tempo per salvare ignare vittime dall’assalto di un essere mostruoso e vorace che dimora nel buio.

Nel terzo ed ultimo racconto partecipiamo ad un ricevimento di gran classe, organizzato in una grande e lussuosa villa di altri tempi, nei cui meandri si nasconde un segreto terribile. Le persone che si allontanano dalle luci della festa e si addentrano nei recessi della magione scompaiono senza lasciare traccia.

Rapidi, stringati, i racconti horror di Lapo Ferrarese seguono percorsi inusuali e si dimostrano serrati come solo le migliori storie di paura sanno essere. E contengono molti motivi per essere apprezzati.

Prima di tutto l'autore non si lascia prendere la mano dalla voglia di stupire, si preoccupa solo di mettere al centro di tutto l’esposizione degli eventi, che racconta con una rapida efficacia, senza perdersi troppo in inutili digressioni.
Fa sempre piacere trovare un narratore horror che punta diritto allo sviluppo narrativo, senza cercare di inebriare il lettore con descrizioni oniriche e con il solito prolisso naufragio nei meandri della psiche e dei pensieri dei personaggi descritti. Poca introspezione, quindi, e molta attenzione a ricreare fatti, atmosfere e dettagli, gli unici a fornire al lettore un aggancio con la propria quotidianità e con le esperienze vissute, senz’altro la strada migliore per ottenere la “sospensione dell'incredulità” e ingenerare subito dopo un’efficace immedesimazione nel racconto.

Altro grande merito è quello di non lambiccarsi più di tanto nell’offrire spiegazioni razionali e chiarimenti fino all’ultimo cervellotico dettaglio. Le storie horror sono storie dell’irrealtà, vivono e si alimentano di imprevisti, sono un mosaico di situazioni necessariamente inverosimili e assurde, ai limiti del grottesco, della follia e del caos. Prendete gli indimenticabili racconti di Clive Barker, dove la stravaganza regna incontrastata, oppure il torbido ed ineffabile mistero che grava sulla celeberrima "Hill House" di Shirley Jackson, che sembra tra l’altro aver ispirato un tantino l’ultima novella di Ferrarese. I narratori (e i lettori) che esigono che dopo il mistero arrivino le spiegazioni razionali, l'ordine e la chiarezza, non hanno capito nulla di questo genere e in realtà cercano solo di ritrovare un approdo sicuro a cui aggrapparsi per smettere di avere paura. Lode a Ferrarese, quindi, che ha saputo limitare il naturale impulso del narratore a far quadrare tutto quanto. Va bene abbozzare qualche ipotesi o qualche spiegazione, lasciando che i suoi personaggi, di fronte all’impossibile, cerchino salvezza in qualche appiglio razionale. Ma bisogna evitare che l’eccesso di spiegazioni rovini tutto il fascino suscitato dall’orrore e spazzi via i germi della paura, sostituendoli il più delle volte con la convinzione di essere in presenza di una trama scombiccherata: Lapo Ferrarese è bravo a trovare un equilibrio tra verosimiglianza e irrazionalità e non cade in questa facile trappola in cui si infilano spesso scrittori ben più noti e celebrati.

Altro motivo di soddisfazione è trovare dei personaggi moralmente limpidi, puliti, buoni. Soprattutto i protagonisti dei due primi racconti (il poliziotto e il ragazzo) sono persone dall’animo buono, senza macchia. Basta con personaggi sordidi, pieni di sensi di colpa e di peccati da espiare. Basta con il mostro che arriva per fare giustizia dei torti e delle cattiverie umane. Quando l’orrore assale con spietata voracità anche gli innocenti la paura aumenta in modo esponenziale.

Alla fine, l’unico vero difetto di INCUBI è di essere troppo breve:
il piacevole sapore della lettura avrebbe richiesto almeno un paio di vicende ancora, per rendere la raccolta davvero memorabile.

Coraggio, signor Ferrarese, si dia da fare a sognare i suoi incubi: questi sono stati un aperitivo ben più che stuzzicante.


Qui sotto la copertina originale del libro, mentre in epigrafe trovate una versione bozza, ma ben dettagliata, del disegno realizzato da Max Guadagni.

domenica 8 maggio 2011

IL DIVORATORE di Lorenza Ghinelli





Orrori di ieri, orrori di oggi
I semi gettati dagli autori horror degli anni '70 hanno germogliato nei figli di quegli anni, ed hanno generato oggi uno stuolo di nuovi narratori della paura, tutti accomunati dall'essere rabbiosi, inquieti, onirici, gravati da una visione pessimistica e senza speranze del genere umano e dei regni spirituali che si nascondono nei territori della psiche. Questo esile e caustico piccolo romanzo non propone una storia che brilla per originalità, ma credo che la coraggiosa autrice del libro, questa talentuosa ragazza del 1981, non si offenderebbe, se uno glielo andasse a dire. La trama del suo "Divoratore" è intrisa (di proposito, credo) degli incubi di grandi auotori italiani, come il Pupi Avati de "La casa dalle finestre che ridono", o il Dario Argento di "Profondo rosso", per come hanno narrato ossessioni infantili in bilico tra realtà e fantasia morbosa. Al temo stesso ci ritroviamo i racconti "ai confini della realtà" dei grandi Richard Matheson o Ray Bradbury, con i loro spettri voraci e divoratori, e poi dopo di Stephen King, con il suo indimenticabile "It", di Clive Barker, passando per il Dan Simmons di "L'estate della paura".
Lorenza Ghinelli ha fatto sue quelle grandi storie, e le ripropone oggi in una vicenda che è però figlia dei nostri tempi, dove l'orrore - se possibile - è ancora più livido e inquietante perchè si cala al centro di un tessuto sociale talmente sfilacciato da risultare irrecuperabile. Negli orrori degli anni '70 i ragazzini erano l'unica speranza per combattere e per vincere il male. Qui, nel nuovo orrore italiano, i ragazzini, incubati in famiglie disgregate, asettiche e, nella migliore delle ipotesi, insulse, sono loro stessi a generare il male, e poi a caderne vittima, risucchiati in una sorta di ritorno a quello stesso inferno in cui sono stati generati. Intorno a loro, l'ennesima rappresentazione di un panorama provinciale senza risorse, senza prospettive. Ha un bel dire Evangelisti nel suo commento al libro: non si riesce a non "divorare" questo romanzo, la sua prosa risucchiante è anche uno dei suoi pregi principali. Anche se l'opera non pare priva di difetti. Ci sono alcuni luoghi comuni, forse i quadri familiari abietti in cui crescono molti dei ragazzi raccontati nel libro potrebbero essere meno scontati. Pietro Monti, l'inevitabile ragazzino autistico intorno a cui ruotano alcuni degli eventi cardinali della storia, nelle intenzioni della Ghinelli avrebbe dovuto essere appunto uno dei fulcri emotivi della trama, ma molto spesso appare troppo finto, fumettistico, risaputo. L'autrice riesce perlomeno a sottrarsi allo sviluppo di farlo risultare l'obiettivo principale del Male. Così come lo stesso "mostro" risulta essere, a volte, poco convincente. Molto più autentico e amabile il personaggio al tempo stesso fragile e risoluto di Alice, l'eroina della vicenda, in cui evidentemente la Ghinelli ha voluto distillare qualcosa di sè stessa.
Lo stile narrativo dell'autrice ricorda molto quello del suo quasi conterraneo Gianluca Nerozzi. Anche lei, come il grandissimo Nero, indulge tanto, a volte persino troppo, in un fraseggio pesantemente allegorico, con un uso evocativo e talora enfatico degli aggettivi, con un ininterrotto ricorso alla metafora, nel proposito di privilegiare una prosa immaginifica, quasi poetica, eppure difficile da visualizzare, in controtendenza rispetto al trascinante fluire degli eventi. L'effetto, usato soprattutto nella parte finale, per dare forma agli sviluppi surreali del romanzo, finisce con l'interrompere di continuo quel processo di "visualizzazione mentale" che si opera nel lettore, il quale fatica a ritrovarsi del tutto coinvolto dagli eventi, quando la strada della descrizione è così irta di iperboli. Intendiamoci: il romanzo è scritto bene, l'italiano è fluente e ammaliante, e quando invece la scrittrice descrive, con le sue frasi brusche e succinte, le parti quotidiane e realistiche della storia, ottiene immagini quasi fotografiche, pennellate espressioniste: in queste fasi l'autrice dà il meglio di sè.
Insomma, si tratta di un altro discreto romanzo horror italiano, che si aggiunge ad una nutrita schiera, capeggiata da quelli scritti da Baldini e da Nerozzi (appunto) e da tanti altri interessanti giovani scrittori, tutti da tener d'occhio, nella speranza che anche loro, come i primi due che ho citato, possano lasciare un segno vivido e duraturo.
Spiace che la Ghinelli, a differenza di altri, abbia fatto incetta di recensioni negative: sui principali social dedicati ai libri, sembra quasi che i lettori abbiano fatto a gara nel darle addosso, quasi tutti sottolineano come la prefazione di Evangelisti sia in stridente contrasto con la qualità del libro. Non mi trovo d'accordo con tanta acrimonia, che francamente non so spiegarmi: IL DIVORATORE, come ho detto, non è esente da difetti, ma nel campo dell'horror si è letto ben di peggio, sia di produzione italiana, sia di provenienza estera.
Coraggio, Lorenza, dacci dentro: leggerò volentieri quello che scriverai in futuro. Nota conclusiva: senza ovviamente sapere nulla di quello che si narrava nel romanzo, l'ho letto in due giorni, il 7 e l'8 maggio, gli stessi giorni in cui avvengono alcuni dei fatti decisivi del libro. Wow, da brividi.